Sentiamo spesso dire che l’aristocrazia va rifiutata in quanto gli aristocratici ostentano ricchezza e questo è ingiusto quando ci sono molte persone che soffrono la fame. Detto così sembra che il ragionamento non faccia una piega; ma non è così.
Non è possibile fare un collegamento tra la ricchezza di alcuni e la povertà di altri, a meno che la condizione di quest’ultimi non sia una conseguenza diretta del comportamento dei primi. Se io sono povero perché il signore al quinto piano beneficia delle mie risorse economiche allora devo riconoscere che c’è un rapporto di causa ed effetto. Ma se il signore al quinto piano è ricco di suo, allora sono due cose distinte e separate. È pur vero che ci sono sempre interconnessioni tra le cose, ma non possiamo pensare la fortuna di qualcuno come causa della disgrazia di un altro. Allora anche noi che godiamo di un relativo benessere dovremmo essere considerati causa del malessere di altri. Credo questo sia profondamente ingiusto. Più sensato è dire che chi è più fortunato deve aiutare chi è meno fortunato. Sempre esisteranno differenze nella ricchezza e nelle possibilità fra persone. Non nasciamo uguali, ognuno nasce con caratteristiche che lo differenziano dall’altro, talenti diversi che poi sono la ricchezza del genere umano. Questo tendere a livellare tutto è un grave errore, un errore che purtroppo oggi si sente ripetere sempre più spesso e con sempre più forza. Non siamo uguali, non dobbiamo esserlo. Siamo uguali solo davanti a Dio, ma tra noi stessi siamo diversi, ognuno con un progetto di vita che differisce dagli altri. Siamo veramente una singolarità irripetibile: nessuno può fare quello che posso fare io e questo vale per ogni essere umano. Ecco perché una cultura che mortifica le peculiarità di chi ha talento è fallimentare, una cultura che deprime le tradizioni che vengono coltivate da uomini e donne di valore ci porta all’abisso.
E qui ritorniamo al discorso dell’aristocrazia e della ricchezza. La ricchezza non deve essere certamente ostentazione, ma essa serve a vari scopi. Innanzitutto per mostrare l’importanza per la società di chi la possiede. In questo senso dobbiamo essere ben consapevoli che la stessa è più una responsabilità che qualcosa di cui rallegrarsi. Questa ricchezza deve essere reimpiegata affinché tutti ne possano beneficiare. Ecco la funzione mecenatesca dell’aristocrazia, l’imposizione di uno stile di vita. Poi, come credo si è già messo in luce, il nobile deve essere lui stesso un modello in tutto e per tutto. Abbiamo già citato la seguente frase di Plinio Corrêa de Oliveira: “Dio affida a talune persone la missione di essere simboli. Esse hanno un portamento, un modo d'essere che corrisponde a una certa grazia, accompagnato dalla capacità di esprimere sensibilmente questa grazia. Hanno un modo d'essere che rende particolarmente allettante le virtù legate alla grazia. Perciò sono chiamate non solo a praticarla in modo esimio, ma a simboleggiarla”. La leggiamo ancora volentieri perché racchiude il senso di quanto qui si cerca di dire. L’aristocratico non solo è patrono delle arti, ma lui stesso deve divenire un capolavoro di grazia ed eleganza in modo da nutrire di bellezza materiale e spirituale quelli che lo circondano. Non è questo quello che rende le società migliori? L’idea egualitarista per cui si deve appiattire tutto sulla mediocrità andrebbe del tutto combattuta, andrebbe completamente eradicata dal nostro modo di pensare.
Quando la ricchezza è usata non solo per sostenere il proprio stile di vita ma anche per quello che potremmo definire un apostolato (della cultura, della stampa, della misericordia) essa non solo non va combattuta, ma anzi deve essere bene accolta. Certo il ricco ha responsabilità più grandi e anche tentazioni più grandi: ecco il famoso discorso evangelico del cammello e della cruna dell’ago. Ma quello che si condanna non è la ricchezza, ma il suo uso smodato. D’altronde, “una Chiesa povera per i poveri” gli stessi poveri, non li potrebbe aiutare.