Scrivo queste righe a pochi giorni dalle elezioni americane: come tutto il mondo sa, ha vinto Donald Trump.
Il candidato repubblicano ha ottenuto una vittoria abbastanza netta sulla candidata democratica Kamala Harris. Questo che cosa ci dice?
Innanzitutto sembra il voto di una popolazione esasperata, una popolazione che non ascolta lo star system che con una compattezza quasi assoluta si era schierato con Kamala Harris. Questo offre un segno chiaro del livello di esasperazione degli americani.
Esasperazione anche aumentata dalle politiche culturali e sociali ultra progressiste dei democratici, che cavalcando il woke, il politically correct, il #metoo, il gender e via dicendo hanno in realtà reso la vita di tutti un inferno.
L’esasperazione è anche abbastanza evidente se si riflette sul fatto che si è preferita una scheggia impazzita come Trump (con tutti i rischi che questo comporta) a un elemento rassicurante dell’establishment come la Harris.
Su Dissoluzione, bollettino settimanale di Dissipatio, viene detto:
“Ciò che questa elezione conferma è che la voglia di un cesarismo dal volto umano, autoritario e imperfetto come l'uomo comune sa di essere, è superiore a quella di essere matematicamente guidati dalla gelida prevedibilità dell'algoritmo che guida le decisioni economiche, o che scrive i discorsi delle star accorse in aiuto della candidata democratica Kamala Harris. Ma il nemico da battere era ed è un partito democratico spostatosi su posizioni troppo radicali poiché vittima dell'incantesimo della teoria ideologica, magari utile per sapere come costruire la società ideale, ma tossica per chi deve, sostanzialmente, vincere i favori della maggioranza. Il partito democratico, fallite le proposte che a destra si sono riassunte nel termine "wokismo" (almeno in America, mentre da noi resiste il sempiterno "politicamente corretto") ha un disperato bisogno di una nuova teoria popolare, che parli alla classe media poco istruita. Il partito democratico ha bisogno di riempire un vuoto incarnato perfettamente dalla sua candidata, incapace di esprimere una posizione netta su qualsiasi tema, mutando forma per convenienza e strizzando l'occhio a potenziali votanti repubblicani (importanti in questo senso sono state le parole sulle armi, che hanno fatto rumore più a sinistra che non a destra). Il vuoto della Harris è il vuoto di una classe dirigente in crisi”.
Certamente questa crisi non è soltanto politica, ma anche culturale, quella di una ideologia totalitaria come il gender, che lo stesso papa Francesco ha denunciato come uno dei più grandi pericoli per l’umanità.
Aleksandr Dugin, da alcuni considerato come uno dei maggiori ispiratori di Vladimir Putin, riguardo alla vittoria di Trump ha detto:
“Attendevamo la vittoria di Trump, la speravamo, anche se non lo ammettevamo spesso apertamente. Al contrario, mascheravamo spesso le nostre aspettative in vari modi, anche cercando di evitare di nuocere allo stesso Trump. Credo che questo spieghi la dichiarazione del nostro presidente sul sostegno a Harris: come una sorta di “toccare ferro” per evitare di portare sfortuna, ha detto il contrario di ciò che realmente sperava. Era anche un modo per evitare di esporre il candidato che rappresentava per noi la possibilità di una prospettiva fondamentalmente diversa, nuova, sui rapporti con l'Occidente, con gli Stati Uniti e su un nuovo equilibrio di potere nel mondo. Trump non è solo un candidato del Partito Repubblicano (e non è affatto un candidato ordinario per l'America, per i Repubblicani o per la politica globale). Trump è una rivoluzione mondiale. Una rivoluzione conservatrice. E il fatto che sia riuscito a salire al potere una volta, a resistere a tutti i colpi durante la presidenza di Biden e ora a vincere trionfalmente di nuovo le elezioni presidenziali, significa che non è una coincidenza. Ora, nessuno può più sminuire il tutto come un semplice “malfunzionamento del sistema”. No, questa è una tendenza, una linea fondamentale”.
Ci sono degli elementi molto interessanti in queste parole di Dugin e, a prescindere dalla lettura che se ne da legata ovviamente ai propri interessi strategici, è interessante la lettura che Dugin offre rispetto alla vittoria di Trump come se essa fosse l’inizio di una rivoluzione conservatrice. Si badi bene che questo concetto ha un significato molto specifico nella storia del pensiero politico e ci sono vari testi disponibili per chi desidera approfondire, come quelli di Stefan Breuer, Ernst Nolte, Alain de Benoist, Hugo von Hofmannsthal e, per l’Italia, di Marcello Veneziani.
Credo che quello che la vittoria di Trump segnala è un malessere nella narrativa democratico-liberal-progressista che viene imposta come una cappa sulla testa di tutti. Ci sono problemi urgenti da affrontare, interni ed esterni per il nuovo presidente americano. Vediamo come si muoverà.