La dottrina sociale della Chiesa ci parla spesso di quello che deve essere considerato come un buon governo. Del resto questo era l’oggetto della riflessione di Confucio, che ha plasmato tutto l’Oriente.
Se ne occupa anche il popolano di Giuseppe Gioachino Belli, in un un sonetto chiamato Er bon governo del 25 settembre 1836. Ovviamente un popolano, che Belli mette in scena, si occupa di cose molto pratiche e non fa troppi voli alati:
Un bon governo, fijji, nun è cquello
Che vv'abbotta l'orecchie in zempiterno
De visscere pietose e ccor paterno:
Puro er lupo s'ammaschera da aggnello.
Nun ve fate confonne: un bon governo
Se sta zzitto e ssoccorre er poverello.
Er restante, fijjoli, è ttutt'orpello
Pe accecà ll'occhi e ccomparì a l'isterno.
Er vino a bbommercato, er pane grosso,
Li pesi ggiusti, le piggione bbasse,
Bbona la robba che pportàmo addosso...
Ecco cos'ha da fà un governo bbono;
E nnò ppiàggneve er morto, eppoi maggnasse
Quant'avete, e llassavve in abbandono.
Ovviamente qui, come in moltissimi altri sonetti, c’è la critica al governo Pontificio (che si appellava alle “viscere pietose” e al “cuore paterno”) al tempo presieduto dal camaldolese Mauro Cappellari con il nome di Gregorio XVI, un Papa in fondo interessante ma che deve la sua fama negativa proprio ai sonetti del Belli.
La gente semplice non chiede altro che tasse giuste, disponibilità di cibo e vestiti, affitti bassi e via dicendo, insomma tutto quello che gli si rende necessario per una vita decorosa. Non che si compiangano le persone quando muoiono e poi comunque mangiarsi tutto quello che hanno.
Certo sembra una visione utopica e non che i governi civili in questo abbiano brillato di più di quello Pontificio. Eppure si dovrebbe tornare a considerare l’importanza dell’arte di governare perché solo dove c’è un governo giusto fiorisce poi la virtù di religione.