Credo che uno dei segni più evidenti della crisi post conciliare si possa riconoscere nella profonda crisi di identità del sacerdozio cattolico. Si è pensato che per avvicinare i fedeli si dovesse rendere il sacerdote più simile a loro, quasi a volerlo laicizzare per renderlo più accessibile. Essere anti tradizionale è sembrata ad alcuni una evoluzione.
Se l’intenzione sembra buona le conseguenze si sono dimostrate disastrose, in quanto al fedele non deve importare la personalità di questo o quel sacerdote, ma la sua funzione. Il sacerdote potrebbe essere simpatico o antipatico, questo è secondario rispetto al suo ruolo di “sacerdote”, che è colui che compie le cose sacre o “prete, presbitero”, il più anziano e saggio in questa accezione. Questo rincorrere il giovanilismo, che è una delle malatte dei tempi recenti non ha prodotto poi grandi frutti. I giovani rincorsi hanno continuato a correre e non sono mai stati raggiunti.
In una udienza del 21 novembre 1973 Paolo VI ammoniva: “Ricordiamo bene questa grande lezione, che deve penetrare nella pedagogia del cristiano moderno: guardare con serena obiettività tutto l’orizzonte delle cose e dei fatti che ci circondano; anzi con ammirazione, con entusiasmo e con occhio scientifico tutto il panorama della creazione; con rispetto, con simpatia, con amore ogni volto umano, straniero o nemico che sia; con sguardo saggio e critico ogni manifestazione dell’esperienza umana, che offenda, o non accolga il giudizio morale, al quale la nostra professione cristiana ci obbliga. Qui cominciano le difficoltà. Noi siamo stati forse troppo deboli e imprudenti in questo atteggiamento, al quale la scuola del cristianesimo moderno ci invita: il riconoscimento del mondo profano nei suoi diritti e nei suoi valori; la simpatia anzi e l’ammirazione che gli sono forse dovute. Noi siamo spesso, nella pratica, andati oltre il segno. Il contegno così detto permissivo del nostro giudizio morale e della nostra condotta pratica; la transigenza verso l’esperienza del male, col sofistico pretesto di volerlo conoscere per sapersene poi difendere (la medicina non ammette questo criterio; perché dovrebbe ammetterlo chi vuol preservare la propria salute spirituale e morale? ); il laicismo, che volendo segnare i confini di determinate competenze specifiche, si impone come autosufficiente e passa alla negazione di altri valori e di altre realtà; la rinuncia ambigua, e forse ipocrita, ai segni esteriori della propria identità religiosa; eccetera, hanno insinuato in molti la comoda persuasione che oggi, anche chi è cristiano, deve assimilarsi alla massa umana, qual è, senza prendersi cura di marcare a proprio conto qualche distinzione, e senza pretendere, noi cristiani, d’avere qualche cosa di proprio e di originale, che possa, al confronto degli altri, apportare qualche salutare vantaggio”. Anche il tanto discusso Paolo VI ben identifica la vera questione e rimarca quella necessaria distinzione che deve esistere per il Crstiano, tanto più per il consacrato a Dio in modo speciale.
Ricordando l’istituzione del sacerdozio cattolico, facciamo memoria del dono fatto all’umanità e riflettiamo sulla sua etimologia con sempre piviva attenzione.