Gli studiosi di comunicazione parlano molto di come essa si sia trasformata nei decenni recenti, e questo naturalmente riguarda anche la comunicazione religiosa. Essa non è più una comunicazione unidirezionale, che parte da qualcuno attivo e viene ricevuta da uno passivo, ma si trova spesso all’intersezione di queste due entità.
Un libro del 2008 di Charles Leadbeater, We-Think. Mass innovation, not mass production, affrontava questo tema in modo interessante. L’autore proveniente da una formazione di tipo progressista (ex collaboratore di Tony Blair, contributore per Marxism Today e il Financial Times) ha una visione entusiastica delle possibilità che la tecnologia offre e in questo dobbiamo dargli in parte ragione. Ma nondimeno dobbiamo anche mettere in guardia sui pericoli.
L’autore mette in luce le enormi possibilità offerte dalle possibilità di condivisione, specie in quello che viene definito terzo mondo. Certo, condividere informazioni è certamente importante, ma porta con sé inevitabilmente il rischio di infodemia, cioè un sovraccarico di informazione non filtrata e di cui non possiamo verificare la veridicità. Lo abbiamo visto bene durante la pandemia di covid, in cui abbiamo ascoltato tutto e il contrario di tutto. Certo, è importante che ci sia la possibilità di avere opinioni diverse su argomenti così importanti, ma c’è anche un deliberato tentativo di causare caos mediatico, di gettare le persone nel panico. Come può essere impedito? Mi sembra che questo sia difficilmente evitabile.
L’autore esalta la possibilità di auto organizzarci, di riscoprire il vecchio concetto di “comunità”. Questo è certamente importante e mi sembra qualcosa che vada investigato con una certa cura, proprio guardando al fenomeno della comunicazione nell’ambito dei blog cattolici. Voglio chiarire: le comunità di un tempo erano gruppi di persone che si incontravano per vicinanza geografica o intorno a certi interessi. Era bello, era il modo in cui si socializzava. Oggi questo accade virtualmente grazie a certi blog o siti, che riuniscono alcune persone che si riconoscono per un interesse condiviso. Ma se osserviamo alcuni importanti blog cattolici, notiamo alcuni elementi di disturbo. Primo, una notevole presenza di persone che in realtà cercano di sfogare una certa aggressività e frustrazione contro il mondo (non semplicemente opinando in senso contrario, ma aggredendo gli interlocutori); secondo, il fatto che la gran parte di coloro che commentano in questi blog si presenta con pseudonimi, quindi di fatto impedendo un incontro reale con gli altri membri della comunità. Quindi, se vogliamo accettare quello che ci dice Ledbeater ed essere lieti per la riscoperta delle comunità, dobbiamo vedere di che comunità stiamo veramente parlando, perché esse non corrispondono al concetto di comunità tradizionale. Anzi, mi sembra esse stiano in piedi in una sorta di paura dell’altro.
Sono il primo a riconoscere il contributo benefico, anche in ambito cattolico, di tanti blog e siti che spesso offrono una solida cultura cattolica e notizie che sarebbe difficile reperire altrimenti. È anche vero che questa opportunità per una partecipazione enormemente condivisa, quasi una mente collettiva, offre molte opportunità ed altrettanti pericoli. Nell’ambito della Chiesa abbiamo visto come questo ci aiuta a vedere alcune cose con più chiarezza ma apre anche il recinto per frustrazioni che evidentemente non trovano sfogo altrimenti. Ripeto che le critiche costruttive sono benvenute, ma qui non parlo di questo. Ricordo della mia conversazione con un blogger celebre, in cui mi confessava la frustrazione per gli insulti (insulti, non critiche) che riceveva quotidianamente per i suoi articoli. Questo, ed altro, conferma che la mente collettiva è una bella idea, ma troppo ottimistica, non tiene conto del peccato originale e della fragilità che ci portiamo dentro. Se fossimo tutti buoni sarebbe una gran cosa e forse non servirebbero neanche i blog. Ma così non è, e dobbiamo cercare di fare del bene in un mondo che spesso rema contro.