La passione per la storia a volte fa dei brutti scherzi. Si immagina infatti di riuscire a capire tutto tramite una interpretazione dei fatti del passato che non può che essere parziale, una interpretazione che ovviamente coinvolge lo storico in prima persona. Il grande scrittore tedesco Ernst Jünger (1895-1998) in un suo testo così ci parla della storia:
“Come l'occhio in un mare molto limpido vede riposare nel fondo l'anfora e la colonna, così il libero sguardo può inoltrarsi fino a quelle misure che sono nascoste nel fondo dei tempi, sommerse dal flusso e dal riflusso. Qui si decide la sorte di una domanda alla quale anche storiografi di rango diedero una risposta negativa: se cioè la storia rientri nel rango delle scienze esatte. Alla domanda si può rispondere di sì, purché si riconosca che sotto il fluttuante specchio della storia persistono i segni supremi, immutabili nei loro rapporti come gli assi e gli angoli del cristallo”.
Ecco, io non sarei così sicuro che la storia possa essere considerata come scienza esatta, ma anche credo che possano essere identificati quei “segni supremi” di cui ci parla Jünger, segni che vanno colti con uno sguardo più ampio di quello che un semplice collezionista di fatti. Il grande giornalista Indro Montanelli (1909-2001) diceva: “Il revisionismo è la materia prima della storiografia che, senza di esso, sarebbe una disciplina morta”. Cioè, bisogna sempre essere in grado di rivisitare i propri giudizi e le proprie convinzioni storiche perché esse non vanno mai considerate come definitive. Credo che questo sia un comportamento che denota semplicemente onestà intellettuale, gli storici dogmatici non vanno molto lontano.
L’erudito Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) dice che “lo spirito della parzialità o dell’avversione troppo sovente guida la mano degli storici”, e io sono senz’altro d’accordo su questa valutazione. Lo storico, come lo vedeva Jacques Le Goff (1924-2014) non dovrebbe essere altro che “un artigiano della memoria”, colui che ricostruisce un passato plausibile a partire dalla situazione a lui presente. Lo storico britannico Edward Hallett Carr (1892-1982) ha una frase che a me piace molto, “studia lo storico prima di cominciare a studiare i fatti”. Io credo ci sia una grande verità in questo. Lo stesso Carr, sempre nel suo bel libro What is History? aggiunge:
“Si diceva che i fatti parlano da soli. Questo è, ovviamente, falso. I fatti parlano solo quando lo storico li chiama: è lui che decide a quali fatti dare la parola, e in quale ordine o contesto”.
Questo va ben tenuto a mente.
Va tenuto bene presente anche quando si parla di quel fenomeno complesso che è il modernismo cattolico, un movimento composito di pensiero che certa storiografia colloca fra gli anni ‘80 del diciannovesimo secolo e il 1914, anno della morte di san Pio X. Il modernismo fu un riformismo cattolico ed è stato molto studiato da storici della Chiesa e della teologia per identificarne cause e conseguenze. Il modernismo, nel suo insieme, ricercava un accomodamento della Chiesa al mondo e alla scienza moderna, un accomodamento però che alcuni hanno giudicato quantomeno pericoloso, in quanto subordinava la Chiesa stessa ad un’idea quasi messianica di progresso, di cui la Chiesa avrebbe dovuto accettare, senza combatterle, le pretese.
Ernesto Buonaiuti (1881-1946), uno dei grandi protagonisti del modernismo, diceva nelle sue Lettere di un prete modernista:
“Io sogno un sacerdozio che adempia fra gli uomini la missione del magistero e del conforto; io sogno dei riti che simboleggino agli occhi di una società, sana e virile nelle sue speranze, le bellezze della vita e la luce del progresso instancabile”.
Ecco, il progresso instancabile era divenuta la nuova religione di questi innovatori, tra cui si trovavano di certo uomini di grande valore intellettuale, come era lo stesso Buonaiuti. Non parliamo qui di pensatori improvvisati ma di persone che, come Buonaiuti, avevano ottime credenziali accademiche.
Le parole di Buonaiuti furono scritte negli anni che videro la grande reazione della Chiesa cattolica al modernismo, l’enciclica Pascendi (1907) che lo definì come “sintesi di tutte le eresie”. Ora, gran parte degli storici del modernismo lo hanno studiato, vorrei dire, con simpatia. Ora, malgrado tutti gli sforzi di imparzialità, questo può essere ben percepito leggendo i loro studi, comunque molto preziosi. Penso sia il tempo per una valutazione del modernismo in cui si ascolti anche l’altra campana, in modo che poi ognuno potrà essere libero di formarsi una più informata opinione. Non intendo qui farmi partigiano per l’una o l’altra parte anche se, in coscienza, mi sento di dire con numerosi Papi che il modernismo ha rappresentato, e rappresenta, un grave pericolo per la Chiesa. Non mi sfugge però, che esso non sarebbe esistito se nella Chiesa non ci fossero state situazioni che alla lunga sarebbero divenute intollerabili. Quindi credo sia importante capire non solo il fenomeno in sé stesso, ma anche i suoi protagonisti e anche coloro che li hanno studiati. Questo perché i fenomeni che hanno dato vita al modernismo non sono di certo conclusi, ma anzi sono ancora presenti nella vita della Chiesa come un fiume carsico, e di essi dobbiamo vedere i vari aspetti che li hanno generati, senza troppi preconcetti anche se anche per me vale quanto detto dallo storico Carr, cioè che in questo caso sono io a chiamare i fatti e a metterli in ordine. Quindi tutto viene filtrato attraverso la mia conoscenza e attraverso la mia visione del problema. Questa consapevolezza mi spinge non solo a cercare una maggiore onestà nella mia esposizione, ma anche a dichiarare al benevolo lettore di questo studio che non sono un discepolo del grande Ranke e che comprendo come tutte le storie, di necessità, sono impastate con la farina di chi le racconta.