Oggi sono 10 anni dalla morte del cardinal Carlo Maria Martini. Per capire la sua importanza in riguardo anche a questo Pontificato riproduciamo un articolo di Marco Garzonio del 2013 che fu biografo e amico del Cardinale.
C'è senz’altro una gran dose di novità nel papato di Jorge Mario Bergoglio. Ma chi vede solo quell’aspetto fa torto a lui e alla Chiesa. E applica solo categorie di tipo politico o comunque di comodo, figlie di una cultura usa a distinguere tra cattolici "buoni", aperti alla modernità, e cattolici attaccati a tradizione, riti, potere.
Le dichiarazioni di Francesco riportate da Eugenio Scalfari vanno lette nella chiave di un uomo di Dio che s’è posto un compito di cui sa l’arditezza: trasformare in fuoco scoppiettante le braci che covavano sotto una pesante coltre di cenere, la quale ha rischiato, anche in tempi recenti, di soffocare ogni afflato vitale, prima che spinte riformatrici. Braci vive, però.
Alcuni esempi li ha offerti lo stesso papa. Ha citato due volte Carlo Maria Martini. Ed è già un bell’attestato, per il cardinale scomparso poco più d’un anno fa, trovarsi in una galleria che va da Francesco d’Assisi a sant’Agostino, da san Paolo a sant’Ignazio.
A colui che fu arcivescovo di Milano in oltre un ventennio difficilissimo, Francesco esprime pubblicamente un debito di riconoscenza straordinario: l’aver per anni indicato ai pontefici allora regnanti, Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger, il modello di una Chiesa "sinodale", cioè un’istituzione in cui il papa governa non da monarca assoluto, ma per "servizio", aiutato da vescovi e cardinali.
Ascoltando questi e potendo contare sul loro apporto, il papa diviene effettivamente capo di tutta la Chiesa, perché tiene conto delle voci di altri continenti, di altri bisogni, di altre sollecitazioni, rispetto a quel Vaticano ripiegato su se stesso e sulla gestione.
E, come vescovo di Roma, senza cioè pretese egemoniche e di proselitismo ("una solenne sciocchezza", dice Bergoglio), spiana la via all'ecumenismo e al dialogo interreligioso su cui Martini incentrò il suo episcopato, prendendosi più di un rimbrotto ufficiale in quanto poco attento, appunto, al proselitismo.
Quando Martini, nel 1981, come bilancio del primo anno di episcopato e quindi dei contatti con la conferenza episcopale italiana e la Santa Sede, cominciò a parlare di "Chiesa sinodale", dovette porre la sua intuizione personale e la via di sviluppo della Chiesa sotto la categoria del "sogno".
Da uomo di fede e persona realista, oltre che prudente gesuita, aveva capito che le sue argomentazioni non costituivano materia gradita ai vertici. Pose le sue idee come meta magari lontana, ma non tacque. E pagò di persona.
Ancora di "sogno" dovette parlare quasi vent’anni dopo, con amarezza e delusione verso il profilarsi del nuovo millennio, quando cresceva la decadenza di forze di Wojtyla e aumentava il potere della "corte", come oggi Bergoglio chiama chi attornia il pontefice. E ancora fu non capito da alcuni, avversato dai più, dagli stessi confratelli vescovi e cardinali riuniti in quel sinodo del 1999.
Martini ci credeva e non rinunciò mai al "sogno", che ora Bergoglio cerca di far camminare perché si trasformi in realtà
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Nell'intervista dell’8 agosto 2012, pubblicata sul "Corriere della Sera" il 1° settembre, giorno successivo alla morte, Martini, col tono grave del lascito testamentario e del monito profetico, indicò anche la via pratica: il papa si contorni di dodici vescovi e cardinali se vuole che la barca di Pietro non venga sommersa dai flutti interni e da una società che non le crede più, indietro com’è di duecento anni su temi quali la famiglia, i giovani, il ruolo della donna (argomento, questo, su cui papa Francesco ha promesso di parlare ancora).
Martini tenne la barra del timone dritta sino all’ultimo. E per dare ancora più incisività ed elevatezza al suo dire aveva precisato che non sognava più "sulla" Chiesa, ma pregava "per" la Chiesa.
Le preghiere devono aver bussato molto in alto se il conclave, sei mesi fa, ha scelto Bergoglio e lui ha accettato dopo una crisi quasi mistica.
Ma è certo che se Francesco riprende quei temi ed esprime riconoscenza pubblica a chi l’ha ispirato è perché Martini non era poi così solo e isolato come molta pubblicistica cattolica ha cercato di far credere per anni.
A smentita dell’opinione pubblica ufficiale, fatta filtrare dai vertici della Santa Sede e della conferenza episcopale italiana, e di un certo manicheismo laico cui è sempre piaciuto indicare un Martini "contro" il papa, la dottrina, il magistero, ecco che un grande fiume carsico scorreva sotto i sagrati, gli altari, i sacri palazzi.
Erano quei vescovi e quei preti, quei laici e quei dirigenti o volontari di movimenti, per i quali non v’era da temere affatto che la Chiesa perdesse potere temporale.
A partire dal convegno ecclesiale di Loreto del 1985 presieduto da Martini (e prima ancora da quello di Roma del 1976, con Martini, Giuseppe Lazzati e gesuiti quali padre Bartolomeo Sorge) furono in molti a riconoscersi nell’immagine di una Chiesa che, oltreché sinodale, fosse povera tra i poveri, ispirata al vangelo delle beatitudini, lievito e granello di senape.
Da parte di una componente della gerarchia si cercò di contrastare quel corso, di recuperare anzi la gestione diretta ("clericale" la chiama ora Bergoglio) del potere e dei rapporti con la politica, al momento della fine del partito della Democrazia Cristiana e della diaspora politica dei cattolici, in aperto dissenso con Martini che invece pensava sarebbe servita da "purificazione" la lontananza dei cattolici dal potere.
Francesco riparte da lì, certo con le dichiarazioni ai giornali, ma anche con atti di governo interni (segreteria di Stato, IOR, gruppo degli otto cardinali) e rivolti alla CEI. Ci si avvia, infatti, all’elezione del capo dei vescovi italiani da parte degli stessi vescovi, con maggioranze e minoranze, con legittimazione del dibattito e di posizioni differenti, non più a designazioni ufficiali e gestione autocratica.
Certo, si appresta a essere una Chiesa diversa, quella che Francesco delinea e che già si intravede. Ma se davvero sarà così, anche alla cultura laica toccherà di compiere un po’ di autocritica.
Facciamo un esempio. Bergoglio ha dichiarato a Scalfari: "Io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio". Nel 2007 Martini disse nel libro-intervista "Conversazioni notturne a Gerusalemme": "Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo". Si stracciarono le vesti in molti. Nel mondo cattolico ad alcuni parve quasi una bestemmia. Ma pure tra i laici molti sussultarono. Per quel libro Martini fu attaccato anche all’interno del gruppo editoriale dell’Espresso, il gruppo di Scalfari. E non fu né la prima né l’ultima volta.
Ecco, il lavoro da fare è molto se si punta davvero a una società e a una politica in cui ciascuno possa dare il proprio contributo, per quello che può e sa. Con onestà e coerenza, disposto a mettersi in discussione.
Allora stupore e ammirazione per il papa saranno autentici e lo si aiuterà nelle riforme, in quanto vescovo di Roma, come lui tiene a ribadire, pastore di un popolo intero che con lui cammina.
Esaltarlo troppo rischia di distanziarlo da quel popolo che per larga parte era già vicino alle sue idee e lo aspettava. E di danneggiare la sua opera.