Una delle caratteristiche della moderna Roma, una caratteristica per cui è una delle mete privilegiate dei turisti, è quella di avere tante vestigia della sua passata gloria imperiale, le famose rovine.
Le rovine sono connaturali a Roma più di quello che potremmo pensare. Lo scrittore Filippo La Porta in un delizioso libricino dal nome Roma è una bugia dice: “Roma assomiglia a un lungo crepuscolo artico che si tinge di infiammati colori barocchi, al chiarore artificiale di una interminabile dolcissima agonia recitata. Scrive Cristina Campo che Roma è tutta “un crollo: di rovine, di palazzi, di nuvole gonfie“, una città che ha fatto propria l’estetica del disastro, quella che Piranesi ha inciso come nessun altro mai. Qui sentite che la fine si avvicina e pur tuttavia non viene mai, perché Roma più che città eterna mi appare eternamente terminale. È un precipitare ad oltranza, un crollo permanente, senza fine, come nel estenuato rallenti di un film di Sam Peckinpah, regista americanissimo ma barocco. Tutto ciò che arriva qui-idee, fedi, ideologie-finisce, diventa rovina e archeologia, si devitalizzare poco a poco (Raffaele La Capria ha definito Roma “Pantheon di idee defunte“), e però non smette di finire“. Mi ha sempre affascinato questa riflessione di La Porta perché a mio avviso dice di Roma molto più di tanti tomi editoriali.
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