La nozione di mito è scivolosa perché viene spesso presentata come sinonimo di qualcosa che non esiste. Dobbiamo stare attenti a fornire questa equivalenza perché ci inganna facilmente. Infatti se parliamo di mito di Roma o di origini mitiche di Roma non stiamo raccontando favole (che pure una importanza in rapporto al reale lo hanno eccome), ma stiamo affrontando Roma da un punto di vista diverso da quello della narrativa strettamente storica. Il mito nel nostro vocabolario assume significazioni multiformi che vanno dall’esaltazione di qualcosa al sogno irrealizzabile. Eppure il mito è concetto di fondamentale importanza in tutte le culture e in tutte le civilizzazioni.
Lo studioso Gianluca De Sanctis in un bel libro chiamato Roma prima di Roma, affronta il discorso del mito collegandolo giustamente alla categoria dell’oralità e facendo intendere che la scrittura è la fissazione di particolari storie in alcune versioni, ma non è detto siano quelle più vere.
Vorrei fare un esempio con il canto gregoriano, nato in un contesto di oralità. Le fissazioni scritte riportano la particolare versione di quella melodia che era conosciuta dal notatore, che magari non era altra da quella di un altro Monastero ma, pur nell’impianto melodico simile, conosceva poche (o molte varianti). Tutto questo per dire che vivere in un contesto di scrittura è diverso dal vivere un un contesto di oralità, è veramente un modo diverso di affrontare il mondo che ci circonda. Il musicologo americano Leo Treitler in The “Unrwritten” and “Written Transmission” of Medieval Chant and the Start-up of Musical Notation (1992, The Journal of Musicology) osservava “che dobbiamo cercare di pensare noi stessi al di fuori delle nostre abitudini di pensiero e pratica musicale, non un compito da poco. L'impedimento è la nostra continua dipendenza dalla costruzione dell'istituto musicale che si formò nei primi anni dell’Era romantica intorno all'idea delle opere come testi con specificazione nelle partiture e data spiegazione acustica nell'esecuzione, eventi che rispettano le specifiche della partitura” (mia traduzione). Lo studioso francese Jacques Viret in La musica occidentale e la tradizione dice: “Lo “spirito tradizionale” appartiene all’oralità. La sua espressione musicale è la modalità; in occidente, i modi gregoriani (o “antichi”, “ecclesiastici”). La tonalità classica, o sistema tonale, ne deriva, ma se ne distingue radicalmente. essa si appoggia sulla scrittura: dal XII secolo la musica colta dell’occidente, attraverso la notazione, si è razionalizzata. essa ha intrattenuto, nel corso dei secoli, rapporti complessi e mutevoli con la tradizione”. Una osservazione molto interessante.
Quello che è vero per la musica lo è per tutto il resto e quindi dobbiamo pensare al mito come un modo in cui una certa cultura fa senso della sua realtà e in quanto tale dobbiamo avere un concetto più elastico del vero/falso che perseguiamo nel nostro pensiero moderno. Il mito può non essere vero, ma non per questo è falso. Un testo classico, Orality and Literacy di Walter J. Ong dice: “Sebbene le parole siano radicate nel discorso orale, la scrittura le blocca tirannicamente in un campo visivo per sempre” (mia traduzione). Certo ci è difficile comprendere tutto questo dalla nostra prospettiva, ma dobbiamo tentare.
Parla del mito in un bel libro Marcello Veneziani, Alla luce del mito, in cui tra l’altro dice: “Nell’epoca del disincanto, il mito appare sinonimo di finzione o leopardiana illusione. Quel che osserva Leopardi dell’illusione vale per il mito, ma con l’avvertenza preliminare che il mito non è il vero né il falso, semmai occhieggia tra ambedue; è una lettura simbolica e metafisica della condizione umana e terrena che si sottrae alle forme del tempo e dello spazio, alla conferma e alla smentita. Il mito non spiega ma dispiega, non segue la trafila delle verifiche né passa dagli accertamenti, ha suoi passaggi riservati dove non deve esibire documenti e subire controlli ma osservare simboli, riti e liturgie”. Poco dopo dice: “Per vivere l’uomo ha bisogno di favole, e quando ne ha distrutte alcune originarie finisce col fabbricarsene altre, di solito peggiori perché nate dalla sua testa o dai suoi comodi, dopo che ha perso i legami col mondo, con le tradizioni e col sacro. Favole contraffatte, egocentrate o smerciate da agenti che detestano le favole ma le spacciano sotto altre vesti per trarne profitto o dominio”. E poi ancora: “Il mito è visione della realtà nelle sue connessioni profonde e trascendenti, è la realtà elevata a racconto, disegno e profezia. Il mito non mente ma narra la vita su un altro piano, da un punto di vista superiore. Per dirla nello stesso linguaggio mitologico, è la vita e il mondo visti con gli occhi degli dei”. Quindi, alla luce di tutto questo, quando parliamo della “Roma mitica” stiamo molto attenti perché essa ci parla di una verità che forse al momento non possiamo più comprendere ma non per questo la definiamo come “falsa”. Non che rinneghiamo la dinamica di cero o falso, tutt’altro. Ma il mito ci innalza al livello del paradosso, una osservazione della realtà mediata da simboli che oggi facciamo fatica a decifrare. Uno studioso controverso come Raimon Panikkar osserva sul mito: “Nel momento in cui si esplicita cessa immediatamente di essere mito. In questo senso la mitologia, se la si intende come il logos del mythos, è una contraddizione in termini”. Quindi sembrerebbe sempre che bisogna osservare i miti dall’uscio senza entrare. Ma io credo soprattutto bisogna cercare di non giudicarli ma di capire cosa ci vogliono comunicare di un mondo perduto per sempre. La Roma che vive nel mito non è una immaginazione, ma sono le grida in lontananza di un’origine che, misteriosamente, ancora ci riguarda.