Avrete sicuramente sentito una famosa frase che dice “Roma non si discute, si ama”.
Come tutte le frasi nasconde anche una parte di verità.
Cioè che prima di poter criticare e discutere Roma, bisogna amarla. Amare significa avere fiducia ed attendere il bene dall’oggetto amato.
Roma si mostra ed ostende nel suo modo seducente e lussureggiante e come una bella donna molto concede agli occhi e molto chiede al cuore.
Roma va compresa nell’insieme di quello che essa è, non contemplando le miserie che pur esistono e che certamente non possiamo nasconderci. Ricordiamo che Cristina Campo definiva Roma tutto un crollo di rovine, e credo questa essere una definizione che ci dice abbastanza su quello che Roma rappresenta.
L’esempio che io ho fatto della bella donna credo sia congruente, Roma è sicura della sua bellezza. La usa, a volte anche l’abusa.
Roma bisogna amarla anche nella sua miseria. In fondo io credo si debba guardare attentamente al significato di Chiesa romana, per cui tutti i cattolici sono romani. In questa romanità c’è lo splendore della bellezza, ma anche lo splendore dell’abisso e l’uno, la bellezza, s’innalza sull’altro, l’abisso. È in essa che il sacro viene profanizzato e il profano sacralizzato in una trasmutazione continua di significati che rendono Roma inafferrabile. Quando parliamo di profano non si intende ovviamente il banale ma l’effimero, perché legato al tempo che passa. Le rovine, un tempo testimoni di una civiltà basata sulla religione, sono un esempio dell’eterno che mostra i segni dell’effimero, del tempo, ma di un tempo dove pulsa sempre dentro un gemito d’infinito.
Una volta un prelato per niente tradizionalista, parlando del Vaticano, mi disse che bisogna prenderlo “con allegria”. Trovo molto indovinata questa osservazione. Come diceva lo scrittore Alberto Arbasino, bisogna vivere le cose serie con leggerezza e le cose leggere con serietà. Leggerezza non lo intendiamo come superficialità. Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane considerava proprio la leggerezza come una delle sei qualità per la buona letteratura: “Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio. In questa conferenza cercherò di spiegare - a me stesso e a voi - perché sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto; quali sono gli esempi tra le opere del passato in cui riconosco il mio ideale di leggerezza; come situo questo valore nel presente e come lo proietto nel futuro. Comincerò dall’ultimo punto. Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo d’immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle. In certi mo- menti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati, Perseo che non rivolge il suo sguardo sul volto della Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo. Ecco che Perseo mi viene in soccorso anche in questo momento, mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra, come mi succede ogni volta che tento una rievocazione storico-autobiografica. Meglio lasciare che il mio discorso si componga con le immagini della mitologia. Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. Subito sento la tentazione di trovare in questo mito un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo. Ma so che ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini”. Ecco, siamo leggeri ma non superficiali, come una ballerina divenendo piuma compie con il suo corpo gli arabeschi più affascinanti.
La Chiesa è il Vaticano ma anche no. Ricordo una buona suora cinese ai tempi in cui vivevo in Cina, rispondendo ad una mia lamentela sul clero locale, mi disse di non curarmi di quello, ma di Gesù, della Chiesa. Ma io non stavo parlando della Chiesa? Sì e no. Guardavo all’affaccendamento dei chierici perché avevo lo sguardo serio, pesante e non riuscivo ad abitare la leggerezza. La rappresentazione vaticana è Roma quintessenzialmente, è laddove il basso nasconde l’alto, è dove Dio si diverte a giocare a nascondino e dove con sicurezza farà tana per tutti.