Quando che si preavvisano i concistori indetti dal Papa, la curiosità di stampa e media vari diviene sempre più intensa, perché tutti vogliono sapere a chi toccherà l’onore del cappello (cardinalizio). Un cardinale acquista un certo prestigio e con questo deriva anche una capacità di far sentire la sua voce molto più forte.
Certo, presumiamo che coloro che vengono scelti per questo compito abbiano una caratteristica fondamentale: la fede.
Giuseppe Gioachino Belli, in un sonetto del 20 aprile 1846 chiamato Li cardinali in cappella, ci mette un poco in guardia, con l’umorismo che gli è proprio, dalle nostre pur legittime aspettative:
L'ho ccontati ggià io: sò cquarantotto:
Quarantasette rossi e uno bbianco,
E ttutti su cquer lòro cassabbanco
Barbotteno l'uffizzio a ttesta sotto.
Disce che oggnun de lòro è un omo dotto
E pparla d'oggni cosa franco franco,
E appett'a llui nun ce la pò nnemmanco
Chi ha inventato le gabbole dell'Otto.
Disce che inzin ch'è stato monziggnore
Forzi oggnuno de lòro, Angiolo mio,
Ha ppuzzato un tantin de peccatore.
E mmó cche ssò Eminenze? Mó, dich'io,
Sarìa curioso de leggejje in core
Quanti de quelli llì ccredeno in Dio.
Il giudizio del Belli è impietoso, vede questi uomini che recitano noiosamente l’ufficio a testa in giù come famosi per essere dotti, ma anche chiacchierati da monsignori per non essere proprio di specchiata virtù. E la curiosità finale è ancora più tremenda: quanti di questi crederanno in Dio?
Dicevamo all’inizio che quello che dovremmo attenderci da un Cardinale è che creda in Dio, ma non un vago teismo, ma credere in Dio come annunciato nella tradizione della Chiesa, che fa più testo delle mode temporanee. Non saremo salvati dalla sinodalità ma dalla fede, quella autentica e sincera.
A volte, guardando certi Cardinali, non mi chiedo come Belli se hanno la fede, ma in cosa hanno fede.