L’affermazione appena ricordata del beneplacito del principe come fonteassoluta del diritto – ciò che a lui «piace» ha vigore di legge, è norma – è stata per così dire eternata in un brocardo del giurista romano Ulpiano (170-228). Essa viene inserita (I, 4, 1) dall’imperatore Giustiniano I (482-565) nella raccolta in cinquanta libri di frammenti di giuristi romani dell’età del principato, da lui voluta e da farsi valere come fonte del diritto e testo normativo, passata alla storia come Digesta seu Pandectae (d’ora in poi D.), in vigore per secoli, soprattutto in area germanica, pur con tutte le glosse e le interpolazioni succedutesi per adattarlo alle nuove realtà ed esigenze manifestatesi nel corso del tempo. Tale brocardo è certamente effetto dell’atteggiamento da parte dei giuristi d’età imperiale che oggi diremmo da «intellettuale organico» del principe, cioè inteso a giustificarne teoricamente le pretese e la concezione ch’egli manifesti del proprio ruolo. Esso sancisce un rovesciamento – non improvviso, ma frutto di un certo processo di contaminazione con la mentalità del dispotismo orientale, come ho ricordato sopra – della concezione del sovrano (singolo o plurale e collettivo, lo ripeto fino alla noia, che sia), che da custode, garante e tramite, quasi pontificale, del diritto come iustum dalle profonde ed intangibili radici nella tradizione, si fa fonte unica e sostanzialmente arbitraria –cioè legata solo al suo beneplacito, legibus solutus (Ulpiano, D. III, 31), che ne è il corollario – della legge (diventa difficile dire diritto). È l’alba del positivismo giuridico, ch’è la radicale, teorica e pratica, negazione della tradizione nel diritto, con l’ordinamento giuridico ridotto a risultante della mutevole volontà di qualunque detentore del potere, comunque costituito e quale che ne sia il regime, ma soprattutto chiave che apre la porta alle peggiori nefandezze travestite da legge, ai desideri più folli che diventano diritti.
Questa concezione del potere, com’è facile comprendere, dà luogo acatastrofiche degenerazioni, nelle quali come vedremo si è poi specializzata la modernità, perfezionandole con la forza della tecnica, e di cui può essere paradigma la nomina senatoriale del cavallo Incitatus, effetto, più che della follia personale di Caligola (Gaio Giulio Cesare Germanico, 12-41), della follia d’un’idea della sovranità come priva di limiti, neanche nella realtà stessa, di cui ha voluto essere provocatoria espressione. Il germe dei totalitarismi, come potere non di uno solo, ma come potere totale e senza che nulla lo limiti, né «in alto» né «in basso», è proprioqui. Quanto si possa pensare di più opposto alla visione cristiana, che ricorda che nulla potestas nisi a Deo (Rm 13,1) sicché il potente non è arbitro di sé stesso, madeve rispondere a Dio: Cesare non sta da solo sulla scena del mondo (Gv 19,11, dove compare la nozione di colpa che può commettere Cesare, che appunto NON è legibus solutus). San Giovanni Paolo II ha sintetizzato questo principio come «sottomissione del potere politico alla legge» (Esortazione post sinodale Ecclesia in Europa, n. 19).
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