Certo è un problema molto complesso, ma credo comunque la Chiesa dovrebbe rivedere la sua strategia verso il mondo tradizionale cattolico, che non sembra molto indovinata.
Ma mi par chiaro che rebus sic stantibus l'unica strategia ipotizzabile, sulla base delle premesse teologiche descritte (dominanti per chissà ancora quanti lustri), sia quella della "riserva indiana" per un tradizionalismo fondamentalmente incompreso:
nella migliore delle ipotesi, un ghetto per gente strana dagli strani gusti liturgici, lasciata a sé stessa (e sarebbe già un "bene");
nella peggiore, un campo di rieducazione: penso ad alcune applicazioni rigoriste della TC negli USA, dove ai fedeli si preconizzano catechesi – obbligatorie? – per poter apprezzare la profondità della riforma liturgica.
In ogni caso, quello che mi premeva di sottolineare è la incomprensione di fondo e della realtà, e del proprio interlocutore (al quale, en passant, stare in una riserva, bonaria o persecutoria che sia, non fa comunque alcun bene).
Caro Maestro, il problema che, temo, non permette alla pars infirma della Chiesa di vedere che quelli che i tradizionalisti additano, pur con tutti i limiti di questo movimento, sono problemi reali e ineludibili, è che la teologia deviata è ormai arrivata proprio al punto di “formulare in proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita”.
Si è giunti cioè a un tale livello di cecità ideologica che certi problemi, mi sembra, non vengono nemmeno percepiti come tali, quanto piuttosto come “segni dei tempi” da cui trarre ulteriori conseguenze teologiche: come riportava recentemente l’abbé Barthe, il p. Theobald SJ (figura di spicco del progressismo teologico anche in seno all’incipiente Supersinodo) immagina un futuro in cui:
“i rarissimi sacerdoti di domani dovranno essere «preti-traghettatori», per la maggior parte del tempo itineranti, educheranno i cristiani alla fede, faranno maturare il loro senso di responsabilità, poi s’eclisseranno; ministri laici stabili li sostituiranno sul territorio e assicureranno una «presenza della Chiesa» nel governare le comunità, nel servizio della Parola (predicazione, catechesi, animazione della liturgia, ascolto, che potrebbe tra l’altro sorpassare o sostituire il sacramento della penitenza) e nell’ospitalità (accoglienza, incontri). I «preti-traghettatori» potranno d’altronde essere individuati e scelti dalle comunità tra coloro che garantiranno questi ministeri plurali. E piuttosto di una formazione specializzata nei seminari, l’insieme di questi attori e l’insieme della comunità potranno beneficiare di una formazione permanente”.
In altre parole, la crisi delle vocazioni non è un problema, è ormai un fatto da accettare come tale e che indica senz’altro la volontà dello “Spirito” di ricentrare la Chiesa su un fantomatico laicato responsabile (fatto – è facile immaginarlo – di soli “cattolici adulti”).
Insomma, per dirla con Tacito, “dove fanno il deserto, lo chiamano pace”.
Immagino che la marginalizzazione sarà un processo che non terminerà presto, anzi credo che andrà avanti qualche decennio, salvo miracolo.
Certo è un problema molto complesso, ma credo comunque la Chiesa dovrebbe rivedere la sua strategia verso il mondo tradizionale cattolico, che non sembra molto indovinata.
Non potrei essere più d'accordo!
Ma mi par chiaro che rebus sic stantibus l'unica strategia ipotizzabile, sulla base delle premesse teologiche descritte (dominanti per chissà ancora quanti lustri), sia quella della "riserva indiana" per un tradizionalismo fondamentalmente incompreso:
nella migliore delle ipotesi, un ghetto per gente strana dagli strani gusti liturgici, lasciata a sé stessa (e sarebbe già un "bene");
nella peggiore, un campo di rieducazione: penso ad alcune applicazioni rigoriste della TC negli USA, dove ai fedeli si preconizzano catechesi – obbligatorie? – per poter apprezzare la profondità della riforma liturgica.
In ogni caso, quello che mi premeva di sottolineare è la incomprensione di fondo e della realtà, e del proprio interlocutore (al quale, en passant, stare in una riserva, bonaria o persecutoria che sia, non fa comunque alcun bene).
Caro Maestro, il problema che, temo, non permette alla pars infirma della Chiesa di vedere che quelli che i tradizionalisti additano, pur con tutti i limiti di questo movimento, sono problemi reali e ineludibili, è che la teologia deviata è ormai arrivata proprio al punto di “formulare in proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita”.
Si è giunti cioè a un tale livello di cecità ideologica che certi problemi, mi sembra, non vengono nemmeno percepiti come tali, quanto piuttosto come “segni dei tempi” da cui trarre ulteriori conseguenze teologiche: come riportava recentemente l’abbé Barthe, il p. Theobald SJ (figura di spicco del progressismo teologico anche in seno all’incipiente Supersinodo) immagina un futuro in cui:
“i rarissimi sacerdoti di domani dovranno essere «preti-traghettatori», per la maggior parte del tempo itineranti, educheranno i cristiani alla fede, faranno maturare il loro senso di responsabilità, poi s’eclisseranno; ministri laici stabili li sostituiranno sul territorio e assicureranno una «presenza della Chiesa» nel governare le comunità, nel servizio della Parola (predicazione, catechesi, animazione della liturgia, ascolto, che potrebbe tra l’altro sorpassare o sostituire il sacramento della penitenza) e nell’ospitalità (accoglienza, incontri). I «preti-traghettatori» potranno d’altronde essere individuati e scelti dalle comunità tra coloro che garantiranno questi ministeri plurali. E piuttosto di una formazione specializzata nei seminari, l’insieme di questi attori e l’insieme della comunità potranno beneficiare di una formazione permanente”.
In altre parole, la crisi delle vocazioni non è un problema, è ormai un fatto da accettare come tale e che indica senz’altro la volontà dello “Spirito” di ricentrare la Chiesa su un fantomatico laicato responsabile (fatto – è facile immaginarlo – di soli “cattolici adulti”).
Insomma, per dirla con Tacito, “dove fanno il deserto, lo chiamano pace”.